VIA PEPPINO IMPASTATO

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Nessuno intitolerebbe una via o una piazza a un generale battuto. A un Ramorino, un Persano, un Cambronne.

Avanzi di accademia militare, non importa se colpevoli o sfortunati, ma sempre vittime di eventi troppo grandi per i mezzi, le capacità o la sorte avuta in dono.

Nella lotta alla mafia, invece, mancando i vincitori, la toponomastica vive esclusivamente di sconfitti.

O meglio, i vincitori ci sarebbero, ma un qualche sussulto di dignità impedisce ancora, chissà perché, l’inaugurazione di corso luciano liggio o del lungomare calogero vizzini.

Rendendo così necessario ricorrere agli sconfitti. A quelle vittime, che uno stato assente è uso omaggiare con la scritta Presente, sulla corona funebre.

L’elenco è diventato troppo lungo per ricordarli tutti. Boris Giuliano, Pio La Torre, Giuseppe Fava, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato.

Sconfitti, sì.

Piantiamola una buona volta con le vittorie morali, le orgogliose riscosse, i fulgidi esempi.

Avessero vinto davvero, a quest’ora parleremmo di virus, di economia, del campionato che, mannaggia, non riprende.

Se parliamo di mafia, vuol dire che è ancora là, al centro del ring, con i pugni alzati in aria.

Imbattuta, come un campione dei pesi massimi.

Mentre l’avversario, con gli occhi pesti, auspica davanti ai microfoni la ferma risposta delle istituzioni. Un’Adriana qualsiasi, buona per tutte le stagioni.

Prendiamo il caso di Impastato Giuseppe, fu Luigi, di cui proprio oggi cade l’anniversario della morte.

Giuseppe, non Peppino.

Quel nome, quell’affettuoso diminutivo, dovrebbe essere esclusivo privilegio di chi ha rischiato, sofferto e lottato con lui. Non di quanti pensano di conoscerlo, solo in base a un film. Utile, senza dubbio, ma per forza di cose riduttivo.

Un’Italia che si riconosce nella politica attuale, pur sbandierando la sacra immaginetta del Peppino supereroe, difficilmente apprezzerebbe le sue opinioni in materia di jobs act, flat tax e affondamento dei barconi.

Fosse ancora vivo, verrebbe bollato di buonismo, estremismo e ogni altra possibile perversione.

Giuseppe Impastato è stato sconfitto, dicevamo.

Ucciso, offeso, calpestato.

In primis da quella stessa legalità in cui credeva, che ha saputo produrre farneticanti ricostruzioni di attentati e sangue mestruale, riducendolo a pericoloso sovversivo, prima di elevarlo nell’olimpo degli eroi.

Poi da una parte della sua area politica. Quel Pci che, nell’immediatezza della morte, lo definì il giovane, ma non il compagno. Auspicando che le indagini non trascurassero nessuna ipotesi, nessuna tesi.

Quasi che, nel paese governato da u zu tano, fossero possibili altri moventi, altri mandanti, altre ipotesi, alternative a una verità gridata pure dalle pietre.

Infine dagli eventi.

Perché la mafia, è il caso di ripeterlo, esiste ancora.

A dispetto di tutti i proclami, le promesse, i giuramenti.

Delle fermezze spesso minacciate e mai attuate. 

Di quella parte sana, schiacciante maggioranza nelle fiaccolate e sparuta minoranza nelle urne.

Se davvero contro la mafia si sta combattendo una guerra, fino a oggi possiamo annoverare solo sconfitte. Alternate a qualche ritirata, parecchie mimetizzazioni e diverse tregue non necessarie.

Non più tardi dell’anno scorso, in Sicilia, si è battuto il record di amministrazioni sciolte per infiltrazione mafiosa. Certi vittoriosi proclami, quindi, sarebbe meglio rinviarli. Quantomeno per pudore.

Tirandoli fuori solo nel giorno in cui i negozi non pagheranno più il pizzo, gli appalti saranno trasparenti e i politici presentabili.

Anche oggi, c’è da scommetterlo, verrà scoperta da qualche parte l’ennesima lapide.

Via Peppino Impastato.

Da intendere come avverbio, forse, più che come sostantivo.

Nel senso che se n’è andato.

E non tornerà.

 

 

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