200 millimetri d’acqua piovuti dal cielo in un arco di tempo che copre circa tre ore e mezza hanno causato la morte di 37 persone e hanno distrutto la vita di chi è sopravvissuto. Il silenzio è ciò che tutt’ora regna nei paesi di Giampilieri, Altolia, Molino, Scaletta Zanclea, Briga e Itala. “Per le strade non si vede più nessuno passeggiare, è tutto deserto, morto” raccontano i sopravvissuti alla tragedia, niente di ciò che avevano è rimasto, dalle abitazioni, agli affetti più cari, dal proprio luogo di nascita alle abitudini di ogni giorno che arricchiscono la vita.
Vittime di questa tragedia non sono solo i trentasette morti, vittime sono anche i sopravvissuti, gente che per la seconda volta ha perso tutto ciò che aveva.
È già accaduto, infatti, che questi paesi vengano travolti dalla furia del fango, una valanga di detriti che precipita senza lasciar respiro, una valanga di detriti che ha distrutto tutto ciò che ha incontrato lungo il percorso. Niente è stato fatto dopo il primo disastro, nessun piano regolatore, nessuna messa in sicurezza, tutto è passato inosservato. Inosservato perché quello che accade in alcune piccole provincie siciliane non è importante, non è importante se non causa la morte di qualcuno. Solo 37 vittime hanno risvegliato la stampa nazionale, stampa che dopo qualche mese si è nuovamente dimenticata di tutto l’accaduto, stampa che non è venuta a conoscenza di un’altra frana avvenuta a marzo, stampa che non si è preoccupata di seguire lo scorrere degli eventi. È il dolore che fa notizia, quando questo viene sostituito dalla lotta per ricostruire una nuova esistenza allora non interessa più.
Giorni trascorsi per strada a cercare i propri cari, mani immerse nel fango nella speranza di trovare qualcuno ancora vivo, lacrime versate alla vista di un padre morto, di un fratello, di un figlio, di un marito e a volte anche di tutti e quattro, settimane con il desiderio che qualche corpo, anche se privo di vita, venga trovato, mesi trascorsi in alberghi lontani da casa più di 30 chilometri. E adesso cosa resta? Decine di palazzi ancora distrutti, zone verdi circondate da strade non sicure, un assordante silenzio che intontisce i paesi e li rende invisibili agli occhi di chi dall’esterno si rifiuta ancora di vedere.
Della piazza, dei bar, delle rosticcerie, dei luoghi di ritrovo, della vitalità dei giovani non è rimasto più nulla, gli abitanti dei paesi sono, di nuovo, completamente soli.
Un sussidio di duecento euro al mese viene dato ad alcuni di loro, altri, considerati più fortunati, sono stati costretti a tornare nella loro casa, sopravvissuta alla tragedia, perché considerata zona verde, non importa che per arrivarci sia necessario passare da strade pericolose, non importa che nelle case attorno non viva nessuno, non importa che la zona circostante non sia stata messa in sicurezza.
Prigionieri delle loro case, prigionieri delle loro vite: “Ho comprato questa casa pagando 10 anni di mutuo, è stato un grande sacrificio, probabilmente il sacrificio più grande della mia vita, e adesso non mi sento sicura. Queste mura non mi proteggono, dovrebbero essere il mio rifugio invece costituiscono solo una grande fonte di paura”. Ogni notte, racconta Antonella, non appena il marito panettiere esce di casa per andare a lavoro, lei sprofonda nella paura, paura di rivivere le terribili esperienze del 2007 e dell’ottobre scorso, paura di perdere le sue due bimbe. La più piccola goccia d’acqua causa il panico: “quella sera dovevo andare a cenare dai miei genitori, ma verso le sette ha iniziato a piovere, così ho preso le mie bimbe e sono salita al piano più alto della casa. Lo faccio sempre quando sento che inizia a piovere. È per questo che ci siamo salvate, altrimenti non sarei qui a parlare con voi adesso, e neanche le mie figlie”.
Antonella è madre di due bambine, una di 4 e l’altra di 11 anni: “la più grande” continua a raccontare “ha subito un grande trauma, fino a stamattina piangeva la morte di una cara amica di famiglia, una zia per lei, una sorella per me; ogni notte si sveglia e non riesce più ad addormentarsi. La sua vita è stata segnata profondamente, è la seconda volta che viviamo questa tragedia, nel 2007 siamo rimaste incastrate nel fango, per fortuna dei ragazzi che passavano ci hanno sentite urlare e sono riusciti a salvarci”. Sono momenti che nella vita di una bambina così piccola non saranno mai cancellati, traumi che le resteranno per sempre marchiati a fuoco nella memoria.
“Mia figlia avrebbe bisogno di un assistente sociale” afferma Antonella “anche io ne avrei bisogno. Come faccio ad aiutare lei se io stessa non ho la forza di andare avanti? Non ho una serenità che permetta di far stare bene le mie figlie”. Nessuno, infatti, si prende cura di loro, nessuno si preoccupa di aiutarli a superare il trauma, a tornare a vivere una vita normale. Come può un bambino dimenticare la paura di quegli attimi e il dolore per le persone care perdute? Eppure tutto questo resta inosservato, tutto questo viene percepito da lontano con indifferenza.
Indifferenza anche nei confronti di chi ha perso madre e sorella, e si trova a crescere un figlio di tre anni da sola insieme al padre, indifferenza per la mancanza di un lavoro e del denaro sufficiente per arrivare a fine mese, indifferenza per la solitudine in cui le giornate trascorrono, indifferenza per la lotta continua contro gli assistenti sociali che, invece di aiutare, vogliono toglierle il bambino. Questa è la storia di Daniela e di suo figlio, figlio che all’età di due anni ha già vissuto per due volte la tragedia dell’alluvione. “Quando, nell’ottobre 2007 mi ha investita l’alluvione io ero già incinta. Sono stata estratta direttamente dal fango, e tutto ciò che ho subito io è ricaduto interamente sul mio bambino” racconta Daniela. Il disastro dell’ottobre scorso li ha colpiti nuovamente: “mio figlio è stato miracolato per una seconda volta. Si trovava in casa della zia Catia, mia sorella, la notte dell’alluvione; il signor De Luca l’ha trovato tra le braccia di Catia privo di sensi ed è riuscito con fatica ad estrarlo e portarlo fuori di casa, salvandogli la vita”.
Piccoli brandelli di speranza vivono ancora in Daniela: “Vorrei che mio figlio avesse una vita felice, vorrei che riuscisse a scordare questo periodo e che non sia mai costretto a rivivere quello che abbiamo passato in questi mesi”.
Abbandonati, è così che si sentono gli abitanti dei paesi colpiti dalla tragedia, abbandonati e dimenticati da chi dovrebbe offrire loro l’alternativa di una nuova vita, ciò che maggiormente richiedono è la speranza di una sicurezza tale che permetta loro di vivere sereni.