Quando una catastrofe colpisce una città, un comune, una paese, si raccontano tante cose. Si ascoltano testimonianze, si citano i nomi di morti e feriti, ci si ferma ad osservare ciò che è successo. I giornalisti cercano una news, lo scoop, e girano in lungo e in largo il luogo dei fatti per scovare qualcosa che gli altri colleghi non hanno ancora visto. Si piange, si aiuta, ci sono funerali. Tutte queste cose, troppo spesso, svaniscono nel giro di poche settimane e tutto cade nel dimenticatoio per lasciare spazio alla tranquilla vita di ogni giorno. Ci sono voci, però, che quasi mai vengono ascoltate. Raccontano, attraverso le parole dei genitori, attraverso i loro sguardi infantili, la propria storia: parliamo dei bambini e di come affrontano o hanno affrontato qualcosa in grado di distruggere la propria vita e modificarla radicalmente. Molti non vedranno più la loro casa, i propri giochi, i più sfortunati perdono tragicamente i genitori, i fratelli, le sorelle, i nonni o i compagni di scuola. I bambini non parlano, ma ci sarebbe tanto da raccontare.
Anche a Giampilieri, paese dilaniato dall’alluvione dello scorso 1 ottobre, ci sono piccole storie di piccoli uomini cresciuti troppo in fretta. Dopo mesi e mesi da quella notte infausta, i bambini come gli adulti non dimenticano, ma provano a tornare alla vita di tutti i giorni, stringendosi l’uno accanto all’altro, quasi facendo finta di niente anche tra loro. Una delle storie in questione riguarda un bambino e il padre, scampati miracolosamente alla morte grazie ad un pacchetto di patatine. Le parole del signor De Luca, padre del bambino, sono la testimonianza di ciò che è successo quella notte ai due superstiti di una famiglia composta originariamente da madre, padre, due bambini e la nonna. “Ho preso mio figlio a Ponte Schiavo e di ritorno ci siamo fermati al bar. Se fossimo stati a casa, io e mio figlio oggi non saremmo stati qui”. La casa dei due, trovandosi in via Puntale, una delle via maggiormente invasa dal fango, è stata completamente coperta dalla terra, spezzando la famiglia in due parti. “Io l’ho visto, e l’ha visto anche il bambino: l’acqua scendeva inizialmente pulita e dopo piena di fango. Non potevamo uscire dal bar per tornare a casa”. Poco prima, l’ultimo inconsapevole saluto alla moglie e madre del piccolo, passata dal bar prima di rientrare nella propria abitazione. “Alle sei e mezza io ero al bar e mia moglie, prima di tornare a casa, ha portato una giacca per il bambino. Le ho detto che sarei rientrato quando la pioggia si sarebbe calmata. Non potevo pensare che potesse crollare una montagna del genere”. Il bar è diventato un rifugio momentaneo, non potendo tornare a casa viste le condizioni disastrose in cui versava il paese. Il fango, le case crollate e la pioggia incessante, impedirono a padre e figlio di tornare a casa, non sapendo che quel punto di riferimento che è il focolare domestico era stato spazzato via dalla montagna. “Quando il bambino si è addormentato sono uscito per vedere com’era la situazione. Quando un uomo mi ha fermato, incredulo, vedendomi vivo, ho capito che a casa mia era successa qualcosa. Mio figlio l’ha capito subito, già nella mattina guardando casa nostra da quella accanto”. “La nonna è morta, la mamma non lo so”, queste le parole che il piccolo rivolgerà al padre guardando da una finestra. “Io sapevo già tutto, ma ancora non avevo detto niente al bambino. Sono andato da una psicologa che mi ha detto di dirgli la verità”. Adesso, a dieci mesi di distanza, padre e figlio cercano di ricominciare con tutte le difficoltà che questo comporta: gestire tutte le spese di affitto, bollette, alimenti e vestiti, è ancora più complicato quando si è perso tutto e non si ha una lavoro sicuro. Ricostruire una vita dal nulla, da soli, non è per niente facile.
Sentire le grida dei bambini che giocano in piazza è simbolo di speranza, ma questi bambini soffrono e spesso questo viene dimenticato. “Mio figlio soffre. Apparentemente è sereno ma pensa spesso alla mamma, alla sorellina, alla nonna. È un trauma per lui. A volte non se la sente di andare al cimitero dalla madre, altri giorni è lui stesso a dirlo, ma non voglio spingerlo a fare qualcosa che non vuole”. Ha ripreso la scuola e la vita di tutti i giorni. Mentre il padre racconta questa storia, lui gioca a pallone con gli amici, divertendosi come può. La sofferenza di quei giorni però resta e difficilmente questi bambini dimenticheranno ciò che è successo. Non ne parlano tra loro, o lo fanno raramente. Cercano di mostrarsi forti, tanto tra gli amici quanto con i genitori, e in questo modo fanno gruppo, si sostengono a vicenda e vanno avanti con la paura che tutto possa scomparire nuovamente. Nove anni sono pochi, ma abbastanza da capire come sia cambiata radicalmente la propria vita. Le perdite hanno creato solchi profondi nella loro anima e difficilmente crescendo si potranno cicatrizzare queste ferite. Si ricomincia o si cerca di farlo, andando a scuola, giocando con gli amici, portando i saluti ai cari defunti, magari piangendo e sfogandosi, ma si tenta di ripartire da soli, quando servirebbe un sostegno per porre una solida base alla costruzione di un futuro stabile, soprattutto per le nuove generazioni. Queste sono storie che nessuno racconta ma che non devono essere sepolte o dimenticate, perché i volti di quei bambini sono i volti di uomini e donne che tra qualche anno formeranno attivamente la società, in grado di scrivere altre storie, si spera, molto più felici.