Volti senz’anima


Io sono come un pianoforte con un tasto rotto 
L’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi 
E giorno e notte si assomigliano 
Nella poca luce che trafigge i vetri opachi 
Me la faccio ancora sotto perché ho paura 
Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura 
Puzza di piscio e segatura 
Questa è malattia mentale e non esiste cura.

Ti regalerò una rosa – Simone Cristicchi

 

Rumori, profumi, suoni, immagini, colori, ricordi, sentimenti, dolore, anime, frammenti, calpestii, sangue, piaghe, cicatrici, lacrime, grida. Pezzi di vita dimenticati in angoli abbandonati e nascosti, pezzi di vita cancellati, pezzi di vita ridotti a brandelli di carta e infine buttati via.
Un grande giardino e diversi edifici adesso sorgono in quello che è stato per più di un secolo l’Ospedale Psichiatrico L. Mandalari. Costruito alla fine del 1800 fu il più grande Manicomio siciliano, superò, senza alcun danno, il terremoto e rimase in funzione fino al 1998, nonostante la legge Basaglia, del 1978, si prefissasse l’obiettivo di chiudere tutti i Manicomi. «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere» tale era l’idea che Franco Basaglia aveva di questi centri, centri che fungevano da contenitori fisici di persone, centri che non si occupavano affatto di curare le persone lì ricoverate, ma che semplicemente le “accatastavano” in qualche stanza e le abbandonavano a loro stesse.  La legge 180 lottava per la chiusura di questi veri e propri lager, non importava se in futuro sarebbero ancora esistiti, ciò che importava era ristabilire il contatto umano con i pazienti, ridare un’identità alle persone che venivano “imprigionate”. Basaglia credeva fermamente in un modo diverso di affrontare i problemi di chi soffriva di disturbi mentali, credeva nella possibilità di star loro vicino senza mai costringerli a fare qualcosa contro la loro volontà, dando l’opportunità di continuare a vivere e non dimenticando la propria identità. Identità, era proprio questa che maggiormente veniva calpestata, veniva cancellata. Tra i manicomi e i lager nazisti non esisteva una differenza troppo evidente: celle prive di qualsiasi oggetto personale davano alloggio ai cosiddetti “pazzi”, divise per tutti uguali erano i loro vestiti, nessuno aveva più una propria personalità, ciò che restava era semplicemente una cartella clinica, una cartella che veniva accatastata insieme a tante altre in uno scaffale che nessuno mai avrebbe controllato. Di ciò che si intende uomo non restava che un corpo privo di anima.

“Incapace di intendere e di volere. Pericoloso per sé e per gli altri.” questa era la frase con cui venivano classificati, un certificato fatto da un medico di famiglia con questa semplice dichiarazione bastava per considerare una persona “pazza” e trattarla quindi come tale, privandola di ogni diritto umano.
Ma cosa differiva i cosiddetti “malati di mente” dalle persone normali?
In realtà, neanche in questo caso, la differenza era così netta. Disabili, epilettici, assassini, infermi, paralitici, in alcuni casi semplicemente persone normali rifiutate per qualche motivo dalla società, ognuna di esse presentava sintomi diversi ma riceveva lo stesso tipo di terapia, terapia che non avrebbe portato, nella maggior parte dei casi, nessun tipo di miglioramento. L’unico modo per uscire dai manicomi era la morte, morte che non avrebbe cambiato il loro peso nella società, le loro anime abbandonavano il corpo per mancanza di stimoli esterni solo poco tempo dopo essere diventati parte di quegli edifici anonimi.

Ma per fortuna oggi le cose sono cambiate. La legge Basaglia ha dato l’avvio ad un processo che ha mutato in maniera radicale le sorti delle persone affette da disabilità mentali. I manicomi sono stati chiusi e sostituiti da centri specializzati, centri in cui la gente ricoverata trova assistenza, trova rifugio, trova la possibilità di crescere sotto ogni punto di vista e continua la propria vita non perdendo la propria identità.
Una delle maggiori strutture presenti nel territorio messinese è il Centro Diurno“Camelot”. Ricavato dall’antica cucina dell’ex Ospedale Psichiatrico, offre ai suoi ospiti diversi servizi: dall’arteterapia alla musicoterapia, dall’ippoterapia alla terapia in acqua, ognuna di questa può essere sia individuale che di gruppo.
Ogni attività è resa possibile dalla cooperazione tra i volontari, il personale del centro e i pazienti stessi: “La struttura non riceve alcun finanziamento per le attività di intrattenimento che svolgiamo, quindi cerchiamo sempre di arrangiarci e in questo i pazienti ci aiutano molto” afferma lo psichiatra Matteo Allone, direttore del centro “la creta con cui costruiamo le piastrelle è fornita da uno dei nostri pazienti, non potremmo mai permettercela altrimenti”.

I modi di interagire con i pazienti sono i più svariati “stiamo cercando di lavorare sui quattro elementi” continua il direttore “creiamo movimento tramite la purezza di questi”. Il fuoco è stato trattato insieme ai ragazzi dell’Istituto Basile che, con la collaborazione degli ospiti del centro, hanno creato diverse figure ed immagini; è stato trattato non solo come elemento naturale ma anche per ciò che rappresenta all’interno di ognuno di noi: violenza e rabbia hanno creato una sinergia tra corpo e psiche. Si è lavorato anche con l’acqua, tramite attività motorie svolte in essa; è stata trattata come elemento forte ma allo stesso duttile: “ciò che cerchiamo di insegnare non è solo il rapportarsi con l’elemento, ma anche una maggiore consapevolezza di sé e ci ciò che ci circonda” afferma la pedagogista Maria Grazia Saia “è importante conoscersi e dialogare con sé stessi. La nostra anima conosce tutto, ma vuole sentire tutto. Le persone giudicate non normali sono lontane dalle dinamiche della vita quotidiana, vivono piuttosto fuori dal tempo e dallo spazio. Noi, la cosiddetta gente normale, siamo dei pavidi, non guardiamo mai all’interno della nostra anima.” Lavorare con i pazienti del centro è motivo di grande crescita interiore per chiunque entri in contatto con loro, dai volontari ai dipendenti specializzati, una crescita che permette anche a chi è giudicato normale di avere una maggiore percezione della realtà, realtà non plasmata dall’esperienza di ognuno di noi ma realtà dei sensi.
La struttura è una vera e propria oasi per chi è affetto da malattie mentali, si riesce a lavorare sull’unicità del singolo e, allo stesso tempo, sull’importanza della collaborazione di insieme. La psichiatria in questo campo ha fatto numerosissimi passi avanti, il ruolo svolto adesso è quello di aiutare il paziente a prendere le proprie scelte, non più quello di plagiarle. “Il contatto diretto che si ha con la sofferenza è un fattore di enorme rilevanza per la vita di ognuna delle persone che lavorano in questo centro” spiega ancora la pedagogista “una volta che l’orario lavorativo finisce si portano a casa i problemi affrontati durante la giornata”.
Adesso la vita per chi ha dei disturbi mentali non finisce, l’anima può continuare ad essere alimentata tramite i più vari modi permettendo ad essa di crescere sia dal punto di vista emotivo che culturale.